Intervento Esther Weber, fiera del Bambino Naturale, Chiari 2016

Pubblicato il 29 Aprile 2016

LA VIA E’ ANCORA LUNGA

dalla teoria alla (possibilmente buona) pratica.

Quali sviluppi reali per la cultura occidentale del portare i bambini addosso.

Buongiorno / ciao a tutti

Comincio con una curiosità e poi una domanda:

  • Chi di voi ha letto il mio libro ?

e

  • Possiamo dire oggi, che esiste una cultura del portare occidentale?

Quando nel 2007 uscì il mio libro ho scritto che “siamo ancora lontani da poter parlare di una cultura occidentale del portare” – perché, puntualizzo oggi, non basta comprare una fascia o quindici o dieci diversi supporti per farsi una cultura ed interiorizzarla.

Cultura, dal latino, ha il significato di coltivazione, educazione, cura, rispetto.

E nel Treccani troviamo la seguente spiegazione:

“L’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio.” (Treccani)

Ma facciamo ancora un passo indietro:

Nel 2000 (e sono solo sedici anni, neanche una vita fa!) cominciai ad occuparmi del tema del portare. Allora, ve lo assicuro, eravamo veramente poche in Italia. In pochissime a credere, che fosse una modalità dolce, ma nel contempo rivoluzionaria nell’approccio con i nostri piccoli, qualcosa che avrebbe potuto cambiare il nostro mondo di domani, perché avrebbe riempito bisogni anziché creato buchi. Pochissime a credere appassionatamente che nel portare stava un mondo intero. Pochissime a intravedere la nascita di una “cultura del portare” occidentale.

Personalmente ho cercato di farmi innanzitutto una cultura personale, perché mi affascinava e non riuscivo a fare altrimenti. Così mi sono occupata del tema a lungo, a livello teorico, studiando, approfondendo, collegando conoscenze, ricerche, pensieri ed emozioni, e a livello pratico portando le mie figlie, accompagnando altri genitori, formando istruttrici.

Da sempre pensavo, che fosse necessario anzi indispensabile, che l’approccio al portare non fosse solo pratico- fisico, ma anche teorico-mentale, in assenza di istintività, mancanza di esperienza propria di contatto da piccoli e quindi sicurezza corporea di fondo, e in presenza di sovrastrutture culturali di una società a basso contatto, che necessitavano ad essere comprese ed eventualmente smontate.

Pensavo che fosse necessario un approccio teorico fondato su ricerche scientifiche, provenienti da diversi campi, collegandole. Biologia comportamentale, antropologia, psicologica, fisiologia.

Di modo che il portare potesse essere credibile anche a livello razionale, trovare terreno mentale dove radicarsi.

Quindi è nato il libro, inteso come riferimento base da cui partire, un seme, che potesse poi crescere ed essere una possibilità per altri di approfondire e andare oltre. La bibliografia in fondo al libro ne è testimone tangibile.

Sta nascendo una cultura del portare occidentale – qui in Italia ?

Ora, quasi dieci anni dopo, intravedo alcuni segnali incoraggianti. Leggendo gli ultimi articoli scritti da giornalisti di testate varie e guardando servizi tv che sono stati fatti, mi sembra che nei media l’informazione rispetto alla modalità e alla fisiologia del portare venga trasmessa in modo abbastanza corretto. Peccato solo che, a volte, le diverse realtà che si occupano del portare, cerchino di portare l’acqua solo sul proprio mulino, anche l’acqua degli altri. Ai miei tempi sono stata sempre molto attenta all’aspetto di fare cultura, quindi di andare oltre all’interesse di coltivare solo il mio proprio piccolo orticello e ho cercato di indicare tutte le realtà che in qualche modo si occupavano del portare. Mi auguro di non essere stata l’unica a pensarla così.

Ma sono contenta, perché sembra che qualcuna/o di qua e di là legga il mio libro fino in fondo, traendo qualche pensiero interessante da sviluppare, sono contenta perché sembra che “fascia lunga” sia un termine acquisito nella lingua italiana. Sono contenta, perché ci sono delle realtà appassionate, che cercano di diffondere ognuna al modo proprio una cultura del portare e anche se molti hanno obiettivi commerciali, la maggior parte di loro dà importanza ad un portare corretto, almeno teoricamente.

E qui arriviamo all’aspetto dell’esperienza:

Quanti bambini vengono davvero portati …e quelli portati, come sono portati ?

Quando vado in città dove vivo da vent’anni, viaggio per l’Italia, e all’estero europeo, vedo pochissimi bambini portati- e vi assicuro che tengo gli occhi aperti (e anche le mie figlie). Ma tra i pochi, vedo pochissimi portati bene.

Questo sì che è motivo di preoccupazione. Non tanto il fatto che siano pochi, ma che siano pochi ad essere portati bene.

Se portiamo il bambino in braccio, lo teniamo vicino al nostro corpo, lo sosteniamo, lo teniamo al sicuro. Se deleghiamo la tenuta del bambino ad un seggiolino, ad una carrozzina o altro contenitore, lo prendiamo omologato, sicuro, garantito.

Quando portiamo con il nostro corpo invece è fondamentale che lo si faccia bene, che sia sicuro, che la tenuta sia fisiologica, che permette al bambino e anche a chi porta! di stare bene da tutti i punti di vista.

A mio avviso, non ci sono scuse oggi per non portare bene un bambino in fascia o in un supporto. Possiamo informarci, imparare dove e come si vuole, ma bisogna portare in modo corretto. Fare ogni sforzo per arrivare a portare bene. E’ una responsabilità intimamente legata alla scelta del portare.

  • In un sondaggio online con 1300 genitori pubblicato da Licia Negri nel suo libro è emerso, che la maggior parte dei genitori ritengano di NON ricevere abbastanza informazioni rispetto ai benefici del portare (72% di no rispetto a 22 % di sì) e che si aspettano di ricevere queste informazioni nei corsi preparto 87% o dal pediatra 80%, in ospedale 74% , dalle associazioni/consulenti 56%, altre mamme 47%, i produttori 25%.
    • Inoltre ritengono che non ricevono abbastanza informazione rispetto alla sicurezza e alla modalità pratica: 76 % NO, contro 17 % Sì. Anche qui l’aspettativa è che queste informazioni vengano fornite da corsi preparto 77%, pediatri 72%, associazioni 65%, ospedale 64%, e produttori 46%,mamme 37% .
  • Si può quindi interpretare, che l’aspettativa massima di ricevere una corretta informazione su benefici, sulla sicurezza e sulla pratica sia posta nel mondo di operatori/di esperti del portare !

Quindi, in realtà, sono chiamati in causa gli operatori, che si aggiornino, che facciano formazione, che imparino, che studino, che si facciano una cultura del portare, di modo che possano trasmettere le conoscenze ai genitori che non aspettano altro che riceverle da loro!

E’ che non è facile farsi una cultura del portare. Oltre allo studio, bisogna imparare praticamente a portare bene, correttamente per la postura del genitore e fisiologica per quella del bambino. D’altronde, portare bene poi significa, aver interiorizzato una propria cultura del portare.

Solo così questo semino si potrà radicare e crescere e non si seccherà e svanirà come tante mode del momento.

Credo che ci troviamo ad un punto critico.

Intravedo un grande fermento commerciale e materiale – realtà produttrici di fasce e supporti nascono come funghi. Stiamo arrivando a ciò che era portare negli anni novanta nel nord Europa: tantissimi avevano una fascia e pochissimi la utilizzavano. Allora, Susi Milz in Svizzera era la prima ad inventarsi la figura dell’istruttrice/della consulente del portare. Perché credeva che, solo se la fascia fosse accompagnata da un corso pratico, i genitori potessero riuscire a portare bene e in diverse posizioni.

Oggi lo scenario è un po’ cambiato perché ci sono i tutorial su youtube e tutto sembra di accesso più facile. Magari qualcuna di voi ne ha esperienza e dopo la condividerà con noi?

Ma imparare: soli col foglietto, col tutorial o con un’altra persona, istruttrice, consulente o mamma esperta, comune a tutti è un aspetto:

CI VUOLE DEL TEMPO.

Per imparare bene bisogna investire del tempo. Non è una modalità che si compra, ma che si sperimenta.

Certo, vi sembra scontato, ma credo non lo sia.

Un neogenitore sulla sua lista delle compere da fare all’arrivo del bambino, ora ci trova anche la fascia. E se poi è bene comprarla, quale prendere? Ricevo ancora oggi delle lunghissime mail che finiscono nella semplice domanda di quale supporto scegliere. Oppure mi scrivono perché il bambino non vuole stare nella fascia, che è stata pubblicizzata come la panacea contro le coliche e per un sonno profondo, che non sia un vizio, il tutto scientificamente provato !

Cosa fare se non funziona? Che cosa succede se la via tutto ad un tratto si presenta impervia? Cosa fare se il bambino non ci vuole stare nella fascia?

Allora sì che la questione comincia a diventare interessante, ecco l’opportunità di approfondire, di fermarsi, finalmente, per ascoltare. Sé stessi e il bambino. E solo in questo modo che si varca la soglia del mondo del portare. Attraverso l’ascolto. Una volta dentro questo mondo, allora si aprono mondi interiori e vere possibilità, per ognuno diverso.

Questo è crescere la cultura del portare.

Mi preme di dirvi, che ognuno di noi con il suo modo di portare, attraverso le sue esperienze e riflessioni, contribuisca alla cultura del portare. Che lo voglia o no. Dalla cultura individuale nasce poi/si manifesta la cultura collettiva. Siamo all’inizio e ognuno di noi, che ci si trova, ne contribuisce davvero. Avete ragione: è una responsabilità.

Personalmente non ho mai voluto creare una comunità a cui aderire, di cui fare parte. E non ho voluto essere una figura da seguire.

Credo, che la via del portare ti faccia incontrare persone, a volte ti capita di fare strada insieme, ma poi, fondamentalmente si è soli, Anche ai tempi dei social network, dei gruppi di cui far parte insieme a migliaia di altri, si rimane singoli e a volte soli, perché non c’è ancora una cultura collettiva disseminata e la propria scelta di portare il proprio bambino magari non è quella della propria vicina o dell’amica migliore.

La sicurezza di fare bene non si trae dal fatto che portare sia scientifico- perché non lo è!! – ma solo e di nuovo attraverso l’ascolto di sé e del proprio bambino. Se sto nell’ascolto la trovo, la mia personalissima via, al di là delle scelte dell’ambiente in cui vi trovate.

In questo modo, penso possiamo affermare, che la cultura del portare stia nascendo. E’ una fase delicata. La via davanti non è pre-scritta, e sarà determinata e indicata da come si vive e si interiorizza il portare. La via è lunga, ma ognuno puo’ fare un pezzo, poi passa testimone, continuando a camminare.

(…A questo proposito:

Portare il proprio piccolo/la propria piccola è un percorso meraviglioso, dall’inizio- attraverso gioie e fatiche a posizioni diverse- davanti fianco dietro- fino alla fine. Fine? Sì, fine. Quando il percorso fisicamente portato finisce, la fascia viene depositata nell’armadio definitivamente. Quando il bambino comincia a rifiutare la fascia, non dite, che si tratti di uno sciopero – o se utilizzate questa parola, almeno ascoltate cosa ha da comunicarvi! Ascoltate fino alla fine. La sua spinta versa l’autonomia, di camminare con le proprie gambe, anche se corte!

Non è facile, lo so- genitori che sono molto affascinati dal portare spesso hanno un rapporto conflittuale con la fine/la separazione/lasciare andare il piccolo. Si può entrare in crisi. Il bambino che sciopera afferma il suo diritto di uscire dalla fascia. Lo lascerete andare? O utilizzerete il vostro potere per farlo rientrare? Chi realmente ha un problema se non si usa più la fascia? Vi dico, diventare consapevoli delle proprie difficoltà di separazione è importante.

Alla fine, se non ascoltate, sarà la lunghezza e il peso a decidere, per forza, ma è meglio essere pronti dentro, perché seguiranno, durante la lunga via post-fascia in cui il bambino cresce verso la sua età adulta, altre separazioni, altri dolori. Meglio arrivarci con un briciolo di consapevolezza della propria angoscia di separazione, preparati per come si può, per non caricare il proprio bambino della responsabilità che è un suo diritto. Altroché sciopero.

…)

A parte pochi momenti di sconforto profondo, non ho mai dubitato che sia giusto avere la visione della cultura del portare in Occidente, anche rischiando di essere derisa, perché ne davo tanta importanza. Quindi di non creare un mercato del portare, ma seminare una cultura. Che questa cultura, a livello di sperimentazione, possa passare anche da una fase di acquisti compulsivi di supporti, ci può stare ed è un fatto che passa, una spinta che si esaurisce.

Personalmente ho dato ciò che ho potuto e finché l’ho sentito per seminare e crescere questa pianta, poi ho passato il testimone a persone meravigliose che oltre al proprio percorso culturale cercano di fare cultura attraverso una formazione generosa e appassionata oltre che competente e professionale. Formazione che permette ad altri, che si mettono in gioco di partire con il piede giusto, il che può fare la differenza.

Chiedere aiuto a chi ha già fatto un tratto di strada, quando si è all’inizio, può cambiare la qualità della propria esperienza e crea comunque una condivisione reale, che crea altri semini.

So, che ancora oggi c’è molta discussione accesa se sia giusto o meno rivolgersi ad una consulente, ma provate a pensare: dobbiamo reinventaci la ruota ogni giorno oppure la diamo per acquisita e quindi andiamo oltre senza pensarci? Se posso partire con il piede giusto oggi, magari riuscirò ad andare più lontano di chi mi ha preceduto e ad un certo punto si è fermata. È questa l’evoluzione auspicabile anche per la cultura del portare.

Inoltre, se non studiamo, sperimentiamo, e poi interiorizziamo il portare come fatto culturale , alla fine abbiamo solo comprato qualcosa e poi gettato via – e ai nostri bambini, cosa resterà?

Invece c’è speranza, perché oggi abbiamo scelto di essere qui, regalando il nostro tempo a questa riflessione e non è poco.

Ora lascio a voi.

Domande?                                                              Esther Weber

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